martedì 28 novembre 2017
Esteri
Cosa bolle nella pentola saudita
Il golpe in corso a Ryad riapre una finestra di instabilità in medio oriente dopo che la vittoria Russo\Siriana sull’aggressione terroristica sembrava aver riportato una speranza di pace nella regione.

 



 



 



 



 



 



 



 



I FATTI



Tra ottobre e l’inizio di novembre l’Arabia Saudita è salita nell’attenzione della cronaca politica internazionale per una serie di avvenimenti che ne hanno smosso l’apparente stabilita e nelle relazioni estere e nell’assetto politico interno. Dopo che nella primavera scorsa, a seguito della visita del presidente USA Donald Trump, si era materializzato uno scontro aperto con l’emiro Al-Thani del  Quatar, avversario per ragioni di prestigio nel mondo arabo e per il suo patronato ai Fratelli Musulmani, ma sodale nel sostegno all’aggressione alla Siria, a sorpresa il 5 ottobre scorso Re Salman bin Abdulaziz si e recato a Mosca dove ha concluso una serie di contratti tra i quali, per la prima volta, un contratto per l’acquisto di armamenti tra cui il sistema di difesa aerea s-400. Poi, l’erede designato e “deus ex machina” della gestione del potere nel Regno, principe Mohammed bin Salman, dopo aver dato corso all’annuncio di riforme modernizzanti l’arcaica società saudita, riforme concretatesi sino ad ora nel permesso di guida alle donne, con il risibile pretesto, dato il contesto regionale, della lotta alla corruzione dava il via all’arresto di qualche migliaio di notabili tra cui principi del sangue, ministri,  ex ministri, alti gradi militari,imam e uomini d’affari che venivano detenuti, i più in vista, al Riz Carlton di Ryad. Nel contempo, sul piano internazionale, col pretesto di un missile balistico lanciato dagli Yemeniti, intercettato poco prima che colpisse l’aeroporto internazionale di Ryad, la diplomazia Saudita accusava l’Iran di aggressine militare. Poi, clamorosamente, il primo ministro libanese Saad Hariri, convocato a Ryad per consultazioni, si presentava alla televisione Al Arabia e formulava le sue dimissioni leggendo un testo evidentemente redatto dai Sauditi, cosa che veniva vista dagli osservatori internazionali come l’avvio di una manovra per destabilizzare il Libano.



Le ragioni di questo improvviso terremoto istituzionale e relazionale sono di due ordini,uno interno e uno internazionale.



 



LE RAGIONI INTERNE



Le ragioni interne vertono sostanzialmente su due problematiche, una dinastica e una economica.



La questione dinastica ha origini lontane. Sino ad oggi la successione sul trono Saudita avveniva per linea collaterale. Alla morte del re gli succedeva il più anziano della pletora dei suoi fratelli discendenti dal figlio del fondatore della dinastia Abdul-Aziz ibn Saud. Ora re Salman è l’ultimo dei figli di Abdul –Aziz e questo vuol dire che alla successione possono aspirare decine di nipoti, molti dei quali con lo stesso carisma e prestigio. Inizialmente re Salman aveva designato come principe ereditario suo nipote  Mohammed bin Nayef ma , con l’ingresso in politica del figlio Mohammed bin Salman, questa investitura è stata revocata ed assegnata a quest’ultimo che, stante la malferma salute del padre e l’età avanzata, è il reale detentore del potere nel regno, potere che, a causa dei ripetuti insuccessi sul piano internazionale e la crisi economica inusitata che affliggono l’Arabia saudita, non è più incontestato tra notabili del regno e specialmente dalle altre due famigli in predicato di accedere al trono, quella del defunto re Abdallah e quella di Nayef. Da qui la necessità per il principe ereditario di liberarsi dei possibili concorrenti  e di coloro che potrebbero appoggiarli. In questa ottica può essere vista la destituzione e l’arresto dei comandanti di esercito e marina e soprattutto del comandante della guardia reale, principe Muteb bin Abdallah potentissimo possibile avversario perché comandante della guardia pretoriana beduina che, ben più dell’esercito, formato in gran parte da mercenari, garantisce il potere dei regnanti a Ryad.



Fra gli arrestati poi figurerebbe anche, oltre ovviamente a Mohammed bin Nayef, il principe Bandar bin Sultan, già ambasciatore a Washington, coordinatore del tentativo di rovesciare gli Assad in Siria e uomo molto vicino alla CIA, il che potrebbe significare che all’operazione sia stato dato il via libera dalla presidenza Trump durante il viaggio che Jared Kushner, genero del presidente e sua “Eminenza grigia”, ha svolto a Ryad il 30 ottobre scorso.



Sempre nell’ottica del consolidamento del potere, in vista della successione dinastica, si possono leggere gli arresti di alcuni importanti iman e l’uccisione in uno scontro a fuoco del principe Abdulaziz bin Fahad nonché  l’abbattimento dell’elicottero con cui il principe Mansour bin Muqrin e altri 8 alti dignitari cercavano di rifugiarsi nello Yemen.



La crisi economica in cui versa l’Arabia saudita, costretta per la prima volta nella sua storia a rivolgersi al mercato internazionale dei capitali per reperire risorse per il bilancio dello stato, è sicuramente il secondo movente dietro al golpe di Mohammed bin Salman.



Negli anni scorsi, nell’insano tentativo di creare difficoltà economiche alla Russia, impegnata nel sostenere militarmente il legittimo governo di Damasco, e di stroncare l’industria USA degli idrocarburi da “Frazionamento degli scisti oleosi”che ha ricostituito una parziale indipendenza energetica degli Stati Uniti, il regno Saudita ha intrapreso una politica volta al mantenimento al minimo del prezzo del petrolio che, complice la diminuita richiesta a causa della crisi economica mondiale, è arrivato in alcuni periodi a scendere sotto la soglia dei 30 dollari al barile. La manovra si è ritorta contro i suoi promotori. Il greggio, veleggiando mediamente all’incirca tra i 50 e i 60 dollari al barile,  non ha distolto la Russia dal suo impegno militare in Siria e, non ha creato difficoltà economiche insormontabili a Mosca stante che per il Kremlino il prezzo ottimale per il finanziamento dell’economia nazionale viaggiava tra i 65 e i 75 dollari al barile. Sul versante americano invece sono fallite le imprese più piccole e che sfruttavano i giacimenti meno redditizi per le quali 70\80 dollari al barile erano il prezzo limite per un ritorno economico ma le imprese più grandi legate ai giganti dell’estrazione tradizionale hanno solo sospeso per qualche tempo i lavori in attesa di una risalita dei prezzi che puntualmente si sta verificando. Di contro il ribasso permanente dei prezzi del greggio ha portato in prossimità della bancarotta la casa Saud impegnata in due guerre, una palese contro lo Yemen e una occulta contro la Siria, e nelle sue politiche costanti di riarmo condotte nell’illusione che riempire hangar e magazzini di costosi giocattoli da guerra, senza avere gli uomini che li sappiano impiegare al meglio fosse un efficace deterrente contro il rivale persiano e sciita. Inoltre non va sottovalutato il peso economico dovuto al mantenimento dello stile di vita sibaritico di circa 10.000 principi della casa reale. Così si è arrivati al punto di dover quotare in borsa la cassaforte del regno, l’industria petrolifera ARAMCO da sempre patrimonio esclusivo della casa regnante, per racimolare liquidità. In questa prospettiva l’arresto con l’accusa di corruzione, che da luogo alla confisca dei patrimoni, di qualche centinaio di miliardari, tra i quali due tra gli uomini più ricchi del mondo quali il Principe al-Walid bin Talal e il fratello di Osama bin Laden, presidente del Saudi- Bin Laden Group Bakr bin Laden, potrebbe portare nelle casse dello stato alcune centinaia di miliardi dollari, un toccasana per l’esausta finanza saudita. La difficoltà nel recuperare questi patrimoni sta nel,fatto che si tratta di asset e conti situati all’estero ma a risolvere questo incaglio stanno provvedendo, nelle cantine del Riz Carlton di Ryad, squadre di “esperti dell’interrogatorio” della Accademi, già Blakwater. La presenza di questi ultimi, così come il viaggio di Jared Kushner immediatamente precedente il golpe, starebbero ad indicare un assenso della Casa Bianca all’operazione retribuito con la quotazione dell’ARAMCO a wall street invece che alla City di Londra dove tradizionalmente vengono trattati gli affari dei Sauditi.



 



LE RIPERCUSSIONI INTERNAZIONALI



L’ Arabia Saudita ha subito in questi ultimi due anni pesanti sconfitte che ne hanno appannato in prestigio nella regione, prestigio che viene mantenuto a galla dalla stretta alleanza con l’occidente e con la elevata disponibilità economica che come abbiamo visto non è più quella di una volta. L’impasse nel conflitto yemenita ha visto la coalizione a guida saudita impantanarsi nel sud mentre nel nord porzioni dello stesso territorio del regno sono state occupate dai miliziani sciiti di Saanà. In Siria la sconfitta delle milizie salafite ad opera della coalizione Siro\Russo\Iraniano\Libanese. Nell’ottica di un ripristino della propria influenza regionale le due prime mosse sono state in primis l’isolamento del Quatar, colpevole di sostenere i Fratelli Musulmani che nell’ottica di Ryad sono dei pericolosi concorrenti nella leadership del jihadismo ancor più pericolosi perchè antimonarchici. In secondo luogo l’accusa di aggressione militare, per interposto Yemen, all’ Iran nella prospettiva di arrivare ad uno scontro diretto nel quale coinvolgere Israele e di conseguenza gli USA. Il coinvolgimento di Israele può passare per il coinvolgimento di Hezbolla e da una destabilizzazione dell’assetto politico del Libano. In questo quadro la sostanziale detenzione del primo ministro libanese e le sue dimissioni in televisive da Ryad rientravano nel tentativo di rigettare nel caos il paese dei cedri creando una frattura tra sunniti e sciiti con i cristiani già divisi tra i due campi e i drusi pronti a correre a soccorso del vincitore. Ma, come dice il proverbio,  il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il messaggio di Hariri giustificativo delle dimissioni per la presenza di Hezbolla nel governo è caduto nel vuoto. Le grandi famiglie sunnite hanno confermato il loro appoggio all’unità nazionale. Hassan Nashrallà con toni estremamente moderati ha supportato la decisione del presidente Aoun di respingere le dimissioni perché non presentate in modo rituale . I leader delle fazioni cristiane ritenute ostili agli sciiti,invitati a Ryad per sostenere la presa di posizione di Hariri non si sono mossi e solo Geagea, dal Libano, ha espresso il suo consenso. A mettere una pietra sopra alla questione sono poi venute le prese di posizione di quattro ambasciatori russi nella regione, tra cui quella sostanziale dell’ambasciatore a Tel Aviv che, con sfumature ed eufemismi diversi ma molto poco velati per chi conosce il linguaggio soft della diplomazia, hanno dato l’altolà ad ogni tentativo di ripiombare il Libano nel caos. Da ultimo è arrivato Walid Joumblat che ha associato la comunità drusa alla richiesta di stabilità politica del paese. A testimonianza che il messaggio è stato recepito, anche se obtorto collo, dai sauditi, Saad Hariri è potuto ritornare in Libano, via Parigi e il Cairo, per festeggiare con le altre autorità politiche la festa nazionale e ha chiesto a Michael Aoun di lasciare in sospeso le dimissioni presentate per permettergli di valutare la situazione. I suoi figli sono in ostaggio a Ryad  ma probabilmente la sua carriera di proconsole saudita in Libano è finita.



 



I POSSIBILI SCENARI



Il tentativo di destabilizzazione del Libano è per il momento fallito ma a Ryad, dopo gli accordi di Taef del 1990, che posero fine a 25 anni di guerra civile, considerano il Libano come cosa loro e non possono tollerare che alla presidenza ci si ora il principale oppositore a quegli accordi e che nel governo siedano quattro ministri del principale alleato dell’Iran nella regione. Un alleato che può vantare di essere l’unica forza araba che Israele non è riuscita a sconfiggere e di essere stato uno dei principali attori della disfatta del sedicente califfato in Siria. Se è poco probabile che i sauditi, che non riescono ad avere ragione di una milizia di straccioni affamati nello Yemen, vogliano affrontare direttamente l’Iran è ipotizzabile che tentino di nuovo di riaffondare il Libano nella guerra civile sfruttando la paranoia del loro, nemmeno tanto più occulto, alleato sionista. La condanna come associazione terroristica di Hezbolla, ottenuta in seno alla lega araba potrebbe essere un invito ad Israele perche agisca. Ma la defezione in seno alla lega di voti pesanti come quello di Egitto, Iraq, Quatar e Algeria sono a testimoniare che l’influenza di Ryad in quella sede va continuamente scemando. Per il Medio oriente che sta per uscire dalla crisi siriana si prospettano tempi interessanti.



 



Massimo Granata




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