“Io non sono razzista”. E’ la frase tipica con cui ogni persona “politically correct” inizia ogni suo discorso in tema di immigrazione. Una vera e propria, come dicono gli avvocati, “formula di stile”, come la frase “contrariis reiectis” che si appone in ogni atto conclusivo di un processo civile.
Nel mio caso non è così. Io veramente non sono razzista, perché da Cattolico credo che ogni uomo, in quanto figlio di Dio, abbia pari dignità e gli debbano essere riconosciuti i diritti fondamentali di ogni essere umano, a partire da quello alla vita per arrivare a quello ad un lavoro correttamente retribuito. Questo a prescindere dal colore della sua pelle, dalla lingua parlata e dalla religione seguita. Allontanarsi da questa regola fondamentale vuole dire creare le premesse per quelle tragedie a cui nel corso della storia abbiamo assistito come, solo per fare un esempio, la tratta degli schiavi. D’altro canto, però, è di tutta evidenza che ogni popolo ha una sua precisa identità costituita da cultura, religione, lingua, tradizioni, usi e costumi e persino peculiari abitudini della vita quotidiana. Queste precise identità nazionali non sono barriere tra i popoli, ma costituiscono una ricchezza inestimabile ben descritta dal vecchio adagio “il mondo è bello perché è vario”. E qui mi sorge spontanea una domanda: perché in Italia (ed in genere nel vecchio continente) non si fa nulla per tutelare questa ricchezza? Perchè si fanno (sacrosante) campagne per difendere una specie animale in via di estinzione o una foresta minacciata di disboscamento, ma si accetta passivamente la scomparsa di quello che è stato il prodotto di una civilizzazione plurimillenaria, quando addirittura non si collabora attivamente alla sua demolizione?
Questi pensieri mi passano per la mente tutte le sere quando, rientrando alla mia abitazione dallo studio, attraverso la città incrociando numerosi capannelli di persone e non sento una sola parola in italiano. Arabo, lingue africane, spagnolo sudamericano, rumeno, una simpatica babele dove però manca quella che dovrebbe essere la lingua prevalente, cioè l’italiano. Guardo queste persone, per carità in maggioranza gente per bene, e mi domando cosa sanno della nostra storia, della nostra cultura, delle nostre tradizioni, quanti conoscono un Dante, un Vivaldi, un Giambattista Vico o abbiano mai sentito parlare del Diritto Romano, la più grande costruzione giuridica della storia umana; quanti, in particolare, sanno che la nostra è una nazione cristiana nella sua essenza (basta guardare le migliaia di splendide chiese e cattedrali che ne ornano praticamente tutte le città) ad onta dell’apostasia degli ultimi decenni.
Le conclusioni a cui amaramente arrivo è che ci stiamo estinguendo. Contro di noi gioca il non aver messo alcun freno ad una immigrazione da paesi portatori di una civiltà diversissima (talvolta addirittura ostile) dalla nostra, ma gioca anche la rassegnazione con cui noi abbiamo accettato di non avere un futuro, abbiamo tagliato le nostre radici storico-culturali, abbiamo abbandonato la Fede che ci ha animato per secoli ed ha dato un senso alla nostra vita.
Esiste la possibilità di una inversione di tendenza? Francamente penso di no, a meno di un intervento diretto della Provvidenza, e quindi la risposta alla domanda avanzata nel titolo è che probabilmente ci saremo, ma solo come una piccola minoranza auspicabilmente tollerata dai nuovi padroni di quella che fu l’Italia.
Certo forse è possibile rallentare il declino, basterebbe porre dei limiti stringenti all’arrivo di nuovi immigrati e rispedire al loro Paese tutti coloro che commettono reati di una certa gravità o che costituiscono un pericolo per l’ordine pubblico. Si potrebbe poi anche cessare di mantenere sfaccendati e fannulloni sottraendo risorse ad altri settori di pubblica utilità. Certo si potrebbe, ma ci vorrebbero classi dirigenti di ben altro livello e dotate del coraggio di affrontare e tagliare i legami internazionali che ci stanno soffocando e non saranno certo la Meloni e Salvini a farlo.
Mario Villani