Tutti ricordiamo i primi videogiochi, almeno tutti quelli di noi che avevano coscienza quarant’anni fa. Erano semplici, intuitivi, una racchetta da tennis che doveva spedire nel campo avversario una pallina virtuale, comandata da una banale rotella, oppure un’astronave che sparava raffiche di missili per difendere il pianeta da un massiccio attacco alieno. Per giocare dovevi andare al bar oppure in una delle prime sale giochi che spuntavano timidamente con le loro vetrate oscurate tra i negozi della città. Per giocare spesso dovevi stare in piedi oppure appollaiato su uno scomodo sgabello che dopo un quarto d’ora ti addormentava le gambe, giocare non era gratis, ci volevano 500 lire a partita e certo, a quelle condizioni, era difficile che i giochi elettronici potessero avere un impatto anche marginale sulla psiche o sul carattere della media degli utenti. Il fatto stesso di dover raggiungere un locale pubblico e disputarsi le poche macchinette disponibili con gli altri potenziali giocatori era comunque vita sociale. Si incontravano giovani, anziani, lavoratori, pensionati e un discreto numero di nullafacenti perdigiorno, persone, con le quali si condividevano le ore generalmente serali dedicate allo svago tra gli sguardi di disapprovazione dei “vecchi” e le battute e le risate dei ragazzi.
Una cosa importante era che in un modo o nell’altro a un certo punto dovevi smettere di giocare, vuoi perché avevi finito i soldi, vuoi perché toccava a qualcun altro, la tua ultima partita terminava con un bel “game over” e tu il gioco lo dovevi mollare dedicandoti a qualcos’altro. Ma questo succedeva negli anni ’80.
Il grosso cambiamento lo hanno portato le prime console, playstation, Xbox e altri apparati hanno trasferito il gioco dal bar alla casa o meglio alle camere da letto dei ragazzi. Non servivano più le 500 lire per giocare, e potevi startene tranquillamente seduto in poltrona senza che nessuno venisse a reclamare il suo turno. In aggiunta il gioco era diventato quasi gratis nel senso che una volta acquistati l’hardware e il programma potevi goderti le tue partite fino alla nausea. Una rivoluzione paragonabile alla diffusione dei primi apparecchi televisivi, “il cinema in casa” come venivano definiti, con la differenza che la televisione almeno agli inizi ha svolto un’azione aggregativa dovuta al fatto che i pochi che potevano permettersela non di rado ospitavano amici o vicini nelle serate passate davanti al teleschermo, per non parlare delle riunioni domenicali nei bar in occasione degli eventi sportivi.
Davanti al monitor della console o del PC invece sei da solo, anzi ti danno noia le parole di chi magari intenzionalmente ti distrae dalla tua occupazione fosse anche per cenare e ti ritrovi che alle tre di notte sei ancora lì con le briciole di pane addosso e la vescica in modalità Cernobyl che cerchi di fare uscire Lara Croft da quel maledetto labirinto nella giungla prima che resti incastrata nella porta del bunker. E domani c’è la scuola, oppure il lavoro, già perché l’età dei giocatori è cresciuta e chi ha cominciato a giocare da ragazzo spesso da adulto continua ritagliandosi il suo piccolo universo virtuale privato dove alla fine per rimandare i problemi basta selezionare “esci” e spegnere il computer; rimandare, non risolvere, la differenza è importante.
Da qui alle partite online sul pc il passo è breve. Non voglio qui affrontare l’argomento dei disastri causati dal gioco d’azzardo in rete o dei problemi di chi ha sviluppato una vera e propria dipendenza patologica fino al punto di confondere la realtà virtuale con la vita reale, ma semplicemente fare un’analisi sul lungo periodo degli effetti dei giochi elettronici sulle persone che vivono una vita normale fatta di lavoro, famiglia, vita di coppia e tutto quello che fa parte della normalità quotidiana di un comune cittadino.
La differenza tra un gioco elettronico e un qualsiasi hobby (non considero un hobby il gioco elettronico) è che al contrario della pesca, del tiro con l’arco, del golf, del biliardo o del modellismo il gioco elettronico non finisce mai; mi spiego meglio: se vai a pescare prima o poi dovrai pulire il pesce che hai preso, metterlo in frigo, cucinarlo e mangiarlo, se costruisci aeromodelli ci sarà la fase in cui devi fermarti per far asciugare la colla o la vernice e verrà il momento in cui il pesce te lo sei mangiato o l’aeromodello è finito e lo fai volare. In pratica hai terminato il tuo lavoro, il ciclo si è chiuso. Nulla vieta che tu torni a pescare o costruisca un nuovo modello di aereo ma intanto hai finito, raggiunto il tuo scopo e chiuso un capitolo. Nel gioco elettronico non è così, c’è sempre un nuovo livello da superare, c’è sempre un nuovo nemico da abbattere e puoi farlo subito, non esiste nessuna attività accessoria concreta, non dovrai mai tornare a casa per riposarti o perché magari piove o uscire per comprare qualcosa che ti manca, è tutto lì, nel gioco, che aspetta solo un tuo click per essere a tua disposizione. Qualsiasi cosa che ti serva, munizioni, carburante, medicinali, cibo è lì che ti aspetta. Questo determina un circolo vizioso che fa sì che il gioco non finisca mai e che tu sviluppi, continuando a giocare, un’incapacità cronica a terminare qualsiasi cosa. Questa abitudine acquisita di non avere la necessità di mettere la parola fine entra nel carattere e si insinua nella mentalità trasformando i giocatori abitudinari in una generazione di adulti inconcludenti.
Qualsiasi occupazione, dal pitturare la cancellata al mantenere rapporti personali con parenti e amici viene affrontato con una sorta di pigrizia derivante dalla convinzione inconscia che c’è sempre tempo per fare quella determinata cosa, rimandare il problema. Questa sorta di accidia, avversione all’operare in concreto, sviluppa col tempo tendenza all’isolamento e all’introversione anche dovuti al fatto che il soggetto respinge le persone che tendono a stimolarlo a svolgere attività fisiche o comunque concrete.
Il giocatore diventa abituale per forza, altrimenti deve smettere perché per ottenere risultati apprezzabili nel gioco occorre dedicarcisi con una certa dose di impegno e perseveranza, chi gioca un’ora alla settimana finirà per disamorarsi e giocare sempre meno perché gli manca la soddisfazione derivante dall’ottenimento dei risultati. Per contro il giocatore abituale ritaglierà ogni momento possibile per dedicarsi al suo passatempo preferito, rinunciando ad attività fisica, aperitivi con gli amici e ultimo ma non ultimo ad interessarsi dei problemi della società in cui vive. Decisamente un cittadino perfetto per un futuro indesiderabile: casalingo, lavoratore, consumatore ma senza un vero scopo nella vita e tantomeno una coscienza politica.
Fabio Dalla Vedova