Alla fine del Settecento la vecchia Europa, tutto sommato ancora cristiana e fondata su paradigmi sociali e giuridici radicati nella Tradizione che accompagna la storia di un popolo nella sua evoluzione, muta radicalmente volto: nel 1789 la rivoluzione francese rompe gli schemi e rimodella la società, dando vita ad un “diritto nuovo”. In un colpo solo vengono cancellate istituzioni e prerogative secolari, espressione dei “corpi intermedi”: diritti “feudali” ancora esistenti, statuti di ceti e di associazioni professionali, diritti reali sulle terre e sui beni comuni (diritti di pascolo, di caccia, di pesca, di passaggio, di legnatico e così via). I cittadini, dichiarati uguali per legge, hanno solo il diritto di scegliere coloro che li rappresenteranno nei Parlamenti (peraltro senza vincolo di mandato); il diritto di proprietà individuale diventa il cardine dell’ordinamento; la religione diventa un fatto privato. Per contro, nascono nuovi doveri, primi fra tutti la leva obbligatoria ed una tassazione che raggiunge livelli mai conosciuti prima.
La volontà generale è la benzina che alimenta il motore: ciò che viene deliberato dalla maggioranza parlamentare – ossia da un ristretto numero di persone - diventa, piaccia o meno, volontà di tutta la Nazione. Per legge vengono soppresse le congregazioni religiose, espropriati i beni della Chiesa, messa al bando la nobiltà, imposto ai preti il giuramento sulla Costituzione, introdotte nuove tasse, decretata la leva obbligatoria. I contadini della Vandea insorgono e con loro i preti cd. ”refrattari”. La repressione è durissima ed inaugura il periodo del Terrore: i fatti sono noti, non c’è bisogno di ricordarli.
Il “modello” viene esportato dalle armi napoleoniche ed imposto nei diversi stati che compongono la penisola italiana durante il cd. triennio giacobino (1796-1799) e nel decennio napoleonico (1806-1815), provocando una forte reazione popolare, duramente repressa. I metodi sono sbrigativi: chiunque non si sottomette agli ordini delle autorità francesi è considerato nemico dello Stato e come tale trattato.
Le popolazioni insorgono: a Milano, come a Pavia, Como, Varese, Bergamo, Brescia, Verona, nel Levante ligure, in Romagna, nelle Marche, in Toscana, in Umbria, nel Lazio. Nel Regno di Napoli l’effimera Repubblica partenopea proclamata dai giacobini cade, dopo 5 mesi di “democratizzazione” forzata e di razzìe senza fine, sotto i colpi della controrivoluzione sanfedista. L’ Armata della Santa Fede, partita dalla Calabria con soli 7 uomini guidati dal Cardinale Fabrizio Ruffo ed ingrossate le sue fila man mano che avanza verso Napoli, vi giunge tre mesi più tardi , il 13 giugno 1799, forte di ben 15.000 armati, pronti a combattere ed a morire per ripristinare l’ordine precedente e riportare sul trono la monarchia borbonica (Ferdinando IV e la consorte Maria Carolina, sorella di Maria Antonietta di Francia, temendo di fare sorte analoga, all’arrivo dei francesi si erano, infatti, rifugiati in Sicilia).
Esaurita la parentesi giacobina, i francesi ci riprovano nel 1806. La resistenza popolare è forte, ma i massacri contro gli insorgenti lo sono ancora di più. Stato di emergenza, condanne (a morte) senza processo, rastrellamenti ed incendi di villaggi, campagne e boschi: è con questi mezzi che la Republique tenta di imporsi sulle popolazioni; la “brigantizzazione” del territorio è l’arma vincente della repressione: tutti coloro che non aderiscono al nuovo ordine politico sono dichiarati briganti, anche le donne ed i bambini. E ciò consente l’applicazione di misure eccezionali e di mezzi straordinari per estirpare la “mala pianta” che infesta la società..
Nel 1860 non è più la Francia ma il Piemonte sabaudo a servirsi di questi mezzi per “unificare” l’Italia. Non bastando la farsa dei falsi plebisciti di annessione, si ricorre alle armi e, ancora una volta, alla dichiarazione dello stato di emergenza che giustifica l’applicazione di misure eccezionali: nelle “province meridionali infestate dal brigantaggio” si varano leggi straordinarie per imporre alle popolazioni il nuovo ordine politico, che esse rifiutano. Massimo D’Azeglio (è non è l’unico: persino Gramsci gli fa buona compagnia) denuncia in Parlamento la “ stagione di sangue” che il Regno d’Italia ha inaugurato nel Mezzogiorno e si interroga sulla legittimità ed i limiti dell’intervento statale: “ad italiani che, rimanendo italiani non vogliono unirsi a noi …. che diritto abbiamo di tirare archibugiate?”. E’ una domanda che vuole provocare un dibattito, ma rimarrà senza positivo riscontro: lo Stato, intenzionato ad imporre le sue scelte, non può preoccuparsi di chi non è d’accordo.
Gli insorgenti/briganti meridionali continueranno a resistere alle misure straordinarie ed alle nuove leggi per ben 10 anni; poi, sempre più ridotti allo stremo ed alla fame, riempiranno i bastimenti che, dai porti di Napoli e di Genova, li porteranno verso “terre assai luntane”.
Ovviamente, questa vicenda i libri di storia non l’hanno raccontata così ed ancora fanno fatica ad accettare la verità che i polverosi archivi della memoria e della storia ci restituiscono giorno dopo giorno.
Forse è il caso di farne tesoro e di porsi qualche interrogativo anche sull’oggi, perché così vanno spesso le cose, anzi così andavano…. (per dirla con il Manzoni).
Mariolina Spadaro