domenica 31 gennaio 2021
Esteri
Macallè
Macallè un nome che agli Italiani di una certa età evoca memorie coloniali è oggi al centro di uno scontro che potrebbe destabilizzare l’Africa orientale dal Mediterraneo all’Oceano Indiano. La clamorosa assenza della diplomazia italiana nella vicenda.

Dallo scorso novembre, nel silenzio totale dei nostri media che pure per il passato coloniale avrebbero dovuto trovarvi interesse, l’Etiopia è in preda all’ennesima guerra civile. La cosa potrebbe apparentemente avere una mera risonanza locale se non avesse già coinvolto la confinante Eritrea, non avesse già avuto ripercussioni sulla travagliata situazione somala e non minacciasse un coinvolgimento del Sudan, dell’Egitto, degli Emirati e della Turchia.

Negli anni che vanno dalla caduta del regime filosovietico di Menghistù, nel 1991, l’Etiopia, costituita in repubblica federale, era stata governata da una coalizione di partiti in cui il ruolo dominante era stato svolto dall’ TPLF, il Fronte popolare di liberazione del Tigrai, che era stato il più attivo ed efficace oppositore Adis Abeba nella guerriglia contro le forze del Regime. Questa egemonia dei Tigrini, nel corso del tempo, aveva prodotto un sostanziale malcontento tra le altre 79 etnie in cui si suddividono i 110 milioni di “Etiopi”.

Lo strapotere Tigrino nel governo centrale cominciò a scricchiolare nel 2016 a seguito di violente proteste popolari guidate dagli Oromo che avevano visto, a seguito di riforme economiche di ispirazione neoliberista, le loro terre agricole minacciate di esproprio da parte delle multinazionali (1), per essere dedicate alla produzione di biocarburanti, cosa che aveva già provocato carestie in altre regioni.  A seguito di queste turbolenze, che non si spegnevano, la carica di primo ministro venne assunta, nel 2018 da Abiy Ahmed Alì, Un Oromo di madre Ahmara, cristiano ma di confessione protestante, il quale pose temine, nel 2019, alla guerra infinita con l’Eritrea guadagnandosi il Premio Nobel per la pace. Forte del prestigio derivantegli dal Nobel e dalla doppia appartenenza tribale ha riunito tutti i partiti e movimenti suddivisi su base etnica in un unico partito, il Partito della Prosperità che avrebbe trasformato l’Etiopia in un regime a partito unico se il TPLF non avesse rifiutato di farne parte di venendo di fatto l’unica opposizione.

La causa scatenante della crisi scoppiata nello scorso novembre sta nel rinvio delle elezioni locali previste per il 9 settembre 2020. Il governo centrale aveva sospeso le consultazioni elettorali rinviandole di un anno, con il pretesto della pandemia di COVID-19. Ma il TPLF ha deciso di tenerle ugualmente. Da questo momento la situazione è precipitata. Il governo centrale ha dichiarato nulle le consultazioni del Tigrai, da parte loro i dirigenti tigrini hanno ordinato il disarmo delle forze federali non tigrine, per altro esigue nel Tigrai dato che le forze armate del TLFP non erano state sciolte ma erano diventate componenti dell’esercito federale, e l’occupazione delle loro caserme.

Il 4 novembre 2020 l’esercito federale dava inizio ad una operazione militare cui partecipavano 50.000 uomini con forze corazzate e artiglieria. Dopo alcuni giorni di scontri le principali città del Tigrai, la capitale Macalle, Axum e Adua (2) venivano evacuate delle forze del TPLF che si ritiravano sulle montagne per dare vita alla guerriglia come negli anni della lotta contro il DERG di Menghistù. Il 30 novembre il primo ministro Abiy dichiarava ufficialmente conclusa l’operazione e il ristabilimento dell’ordine nel Tigrai. Da allora il silenzio totale è calato sulla situazione essendo la regione preclusa non sollo ai media ma anche alle organizzazioni umanitarie internazionali. Ma che la situazione non sia ristabilita e che non solo la guerriglia non sia terminata ma anche le operazioni militari convenzionali continuino lo si evince dal fatto che in rappresaglia per l’intervento dell’esercito eritreo a fianco delle forze federali, l’aeroporto dell’Asmara è stato colpito da almeno 3 lanci di missili balistici, si tratterebbe di una versione modernizzata in Egitto dei Frog 7 di origine sovietica.

Già questo fatto implicherebbe che la crisi sia uscita dal mero carattere interno etiope e possa estendersi ad altri paesi, confinanti e non. L’intervento diretto eritreo viene negato dall’Asmara ma la rappresaglia tigrina è li a smentire le affermazioni del regime eritreo che inoltre starebbe rastrellando gli oltre 100.000 profughi eritrei ammassati nei campi intorno ad Adua e Scirè. Un altro centinaio di migliaia di profughi tigrini è sconfinato nel Sudan che con la scusa di gestirne il flusso ha mandato l’esercito alla frontiera occupando anche quelle aree confinarie contestate che tra settembre e novembre sono rimaste indifese per il ritiro dell’esercito etiope. Il fatto poi che i militari del TPLF utilizzino missili balistici di produzione egiziana implica che l’Egitto, da tempo in difficili rapporti con l’Etiopia a causa della diga GERD sul Nilo Azzurro, ovvero la Grand Ethiopian Renaissance Dam (3), non abbia perso tempo a rifornire le forze armate del Tigrai attraverso il Sudan. Ci sono poi implicazioni che vanno oltre la ristretta area del corno d’Africa. Dietro all’Etiopia ci sono Gli emirati Arabi Uniti  che stanno anche dietro all’Eritrea in uno strano connubio coi Turchi che sono loro avversari sul teatro libico (4) e i Turchi stanno prendendo sempre più piede anche i Somalia dove la loro influenza è destinata solo a crescere ora che l’Etiopia ha ritirato da Mogadiscio il proprio contingente militare per rischierarlo nel Tigrai. La presenza turca poi significa l’installazione della “Fratellanza Musulmana” cosa che Egitto e Sudan non possono tollerare (5) se si pensa oltretutto che la consistenza dei musulmani in Etiopia si avvia rapidamente alla parità con i cristiani salvo che nel Tigrai dove i copti sono ancora l’87%. Tutte queste concomitanze fanno si che la crisi possa facilmente debordare in una regione che è già altamente destabilizzata (6). In tutto questo brilla l’assenza di una diplomazia, quella italiana, che ha naturali interessi nella regione ma che inspiegabilmente da almeno un decennio è scomparsa dall’area, come da tante altre.

Massimo Granata



1 - Si tratta del fenomeno del land grabbing. In alcune regioni il governo Etiope ha espropriato i terreni agli agricoltori locali per consegnarli alle multinazionali con il pretesto che i contadini non potevano esibire titoli legali di proprietà della terra, in Etiopia non esiste un catasto rurale ergo…

2 - Come vedete si tratta dei luoghi delle più o meno fortunate avventure coloniali italiane il che avrebbe giustificato un minimo di interesse in Italia

3 - La diga sul Nilo Azzurro comporterebbe una diminuzione della portata del Nilo con pesanti conseguenze sulla agricoltura egiziana e sulla minuscola area agricola sudanese. Le ricadute negative sarebbero ancora più pesanti nel periodo di riempimento dell’invaso. L’Egitto ha chiesto l’intervento della comunità internazionale per regolare il problema ma i negoziati sono tuttora a un punto morto. Al Cairo sanno bene quali siano le conseguenze di uno sbarramento sul Nilo avendole sperimentate con la costruzione della diga di Assuan che però aveva come contropartita la produzione di energia per l’Egitto cosa che la diga GERD garntisse solo all’Etiopia

4 - A dire il vero anche sul teatro libico la posizione degli emirati si è dimostrata spesso ambigua e controproducente per gli alleati

5 - Al Sisì è andato al potere con un colpo di stato contro un governo gestito dai Fratelli Musulmani . Il Sudan si è liberato recentemente di un governo islamista e sta dimostrando il cambio di campo diplomatico concedendo una base alla flotta russa nel Mar Rosso

6 - Si pensi alla situazione somale e alla guerra che infuria sula sponda opposta del Mar Rosso, nello Yemen




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