domenica 11 agosto 2019
Storia
Elogio di Fra Diavolo
Quell'uom dal fiero aspetto...

Ci sono parole che è difficile o quasi impossibile trovare nei libri di storia: una di queste è “insorgenza”. Stiamo parlando del movimento di resistenza delle masse popolari italiane all'invasione dei principi illuministici e rivoluzionari che le armate napoleoniche - calate in Italia negli anni a cavallo tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX - veicolarono in una buona fetta d'Europa. Una pagina di storia non soltanto negletta ma di capitale importanza sia per l'estensione del fenomeno che vide l'insurrezione in armi di tutta la Penisola, dal Tirolo alla Calabria, sia per il riverbero che ebbe su eventi successivi come l'unificazione nazionale, con tutto il corollario di contraddizioni che questo processo portò con sé.



Secondo la versione ufficiale, quando Napoleone attraversò le Alpi per portare gli “immortali principi” della Rivoluzione e combattere i legittimi governi della Penisola, fu accolto trionfalmente come colui che avrebbe liberato gli italiani dalla tirannica e alleanza tra Trono e Altare.



La realtà fu ben diversa. A fronte di un'esigua minoranza di sostenitori -forse non più di due o tremila – la gran parte della popolazione non si fece abbindolare dalle nuove idee e non esitò a prendere le armi in mano per sbarrare la strada all'imperatore corso. Una reazione, non tanto contro un generico invasore, quanto la difesa cosciente delle proprie tradizioni e della propria fede religiosa, in particolare di tutto ciò che attorno a questa fede si era costruito nel corso dei secoli.



A comporre questa armata della Santa Fede non furono certi circoli aristocratici alla moda, né tanto meno quella borghesia mercantile e intellettuale che al contrario si era prestata ben volentieri a fare da cassa di risonanza alle nuove idee che venivano da Parigi. Tra gli insorgenti troviamo invece uomini semplici, per lo più contadini e appartenenti ai ceti sociali più umili spalleggiati dal basso clero - secolare e regolare- nonché da qualche coraggioso prelato: uno su tutti Fabrizio Ruffo, il valoroso cardinale che ebbe un ruolo fondamentale nell'organizzazione degli insorgenti nel Mezzogiorno e che, postosi alla testa di un esercito raccogliticcio, partendo da Reggio Calabria riuscì a riconquistare tutto il Regno e arrivare trionfalmente a Napoli. Proprio in queste zone agì un'altra figura mitica della sollevazione antifrancese: quel Michele Arcangelo Pezza che passò alla storia come Fra Diavolo.



Questo nomignolo farebbe pensare a un frate uscito dal convento per chissà quali motivi. In realtà il Pezza non fece alcuna professione di fede ma indossò per alcuni anni un saio per onorare un voto che la madre fece a San Francesco di Paola al fine di chiedere la guarigione da una grave malattia che lo colpì in tenera età. Il resto lo fece un suo professore di scuola il quale, di fronte all'ennesima impertinenza del giovanotto, lo apostrofò con queste parole: “Tu non sei Fra Michele Arcangelo, tu sei Fra Diavolo”. Da allora questo soprannome non lo abbandonò più.



In effetti il soggetto in questione non era certamente uno stinco di santo. In circostanze non chiare, all'età di 25 anni uccise il mastro sellaio del paese, nella cui bottega stava lavorando come garzone. Non contento pensò bene di far fuori anche il fratello dell'artigiano, spaventato com'era dall'idea di subire una eventuale vendetta. In queste condizioni non gli restò che abbandonare Itri, il suo paese natale situato a circa metà strada tra Roma e Napoli, e darsi alla macchia. Sulla sua testa pendeva una imputazione per duplice omicidio, per cui l'unico modo per sfuggire alla giustizia era quello di arruolarsi nell'esercito del Regno di Napoli. La sua domanda fu accolta, anche se per espiare i delitti compiuti avrebbe dovuto sottoporsi a una ferma di ben tredici anni.



Con la divisa borbonica partecipò all'invasione di Roma dove i francesi avevano scalzato l'autorità papale e proclamato la Repubblica. Ma il successo delle truppe napoletane durò ben poco in quanto una controffensiva delle armate napoleoniche sbaragliò l'esercito regio e provocò la fuga dello stesso Ferdinando IV in Sicilia.



Il suo servizio militare era durato soltanto pochi mesi eppure quell'esperienza gli fece capire la missione a cui era chiamato: la battaglia contro quegli stranieri che volevano sradicare la Santa Fede dai cuori degli uomini e dalle istituzioni.



Fra Diavolo del resto aveva sperimentato da vicino le scie di stragi e di crudeltà efferate che accompagnavano il rituale con cui venivano eretti i cosiddetti “alberi della libertà” nelle piazze italiane. Anche Itri non era scampata alla furia giacobina e fu oggetto di una durissima rappresaglia in cui molti suoi paesani persero la vita. Tra questi anche il padre di Michele fu preso a sciabolate da qualche paladino della libertà d'Oltralpe.



Per quei morti non vi fu nemmeno la possibilità di amministrare gli estremi conforti religiosi poiché in paese non c'era più un prete. Fra Diavolo prese così la salma di suo padre e lo seppellì dietro l'altare maggiore della chiesa dove lui stesso era stato battezzato. In quella circostanza, prima di chiudere la tomba, pronunciò le parole che sarebbero diventate il suo programma di vita: “giuro di combattere finché un francese sarà nel regno”.



E in effetti la causa dell'insorgenza dovrà non poco a questo controverso personaggio.



Anche quando fu proclamata la Repubblica partenopea che chiudeva in una morsa tutti i territori tra Roma e Napoli, la fiamma della rivolta fu tenuta alta grazie alle scorribande di Fra Diavolo e di altri “capimassa”. Intere zone erano sotto il loro controllo e quando qualche carovana francese si aggirava nei paraggi piombavano dai monti e tendevano agguati spesso devastanti.



Per questi uomini certa storiografia ha avuto soltanto giudizi negativi definendoli frettolosamente e non senza un intento spregiativo “briganti”. Non si può nascondere che tra le fila delle bande di Fra Diavolo si era infilato un certo numero di sbandati e ladri: insomma briganti veri e propri che approfittavano della guerra per compiere furti e saccheggi. Tuttavia al ribelle di Itri si era unita anche tanta gente semplice e per bene, animata non da cattive intenzioni bensì dalla volontà di difendere le proprie terre. A determinare la mobilitazione di migliaia di uomini contribuirono senza dubbio le condizioni economiche al limite della sopravvivenza e la minaccia della coscrizione obbligatoria, ma non va dimenticato che un fattore decisivo fu proprio l’insofferenza verso l'atteggiamento anticlericale e antireligioso ostentato dai francesi. Non a caso gli insorgenti si gettavano all'assalto al grido di “Viva Maria”, quel grido di battaglia che li unì indistintamente senza differenze di provenienza o condizione sociale.



Le stesse imprese di Fra Diavolo non passarono inosservate tanto che la Corte borbonica ne era puntualmente informata. Pur essendoci alti dignitari che lo ritenevano poco affidabile, nell'ottobre del 1799 il Re lo promosse al grado di colonnello di fanteria.



Fin da giovane Michele non era rimasto insensibile al fascino della divisa, eppure un ruolo così carico di responsabilità nell'esercito borbonico gli stava un po' stretto, soprattutto alla luce delle inevitabili incomprensioni con i vertici militari e politici del Regno sempre più inclini al compromesso con Napoleone.



L'occasione per continuare la propria battaglia gli fu data dall' assedio di Gaeta dove la locale fortezza, pur essendo destinata da un accordo politico a tornare in mano ai francesi, era ancora saldamente comandata dal generale Philippstadt; un generale austriaco tutto d'un pezzo e per niente d'accordo a passare la mano.



Anche Gaeta cadde e ciò rappresentò un chiaro segnale che la causa dell'insorgenza si trovava sempre più isolata. A quel punto chiunque al posto di Fra Diavolo avrebbe pensato a tirare i remi in barca e magari assecondare quello spirito di rassegnazione e di accomodamento che aveva pervaso la corte napoletana. Tra l'altro il re gli aveva pure conferito il titolo di duca di Cassano perciò non poteva esserci occasione migliore per ritirarsi a vita privata e godere con la sua famiglia dei privilegi conquistati nel corso degli anni. Evidentemente per Fra Diavolo non era ancora il tempo di fare il “pensionato” e l'indole del sanfedista ebbe ancora la meglio.



Così, eccolo nuovamente impegnato nella sua guerra senza quartiere contro i francesi. Prima in Calabria, nel tentativo di ripetere la marcia trionfale del cardinale Ruffo, poi nel salernitano dove si consumò l'ultimo capitolo della sua esistenza. Riconosciuto da un farmacista di Baronissi fu consegnato ai francesi che lo impiccarono a Napoli l'11 novembre 1806 lasciando penzolare il suo corpo per un'intera giornata.



Il resto del “lavoro” l'hanno fatto gli storici che dopo la sua morte gli hanno messo al collo il cappio dell'infamia facendolo passare come un feroce bandito e un sanguinario. Si è già detto che il profilo personale di Fra Diavolo presenta non poche ombre, tuttavia nella sua vita non mancarono grandi slanci di generosità e soprattutto la causa che abbracciò fu sacrosanta. L'ennesima dimostrazione che il buon Dio scrive dritto anche sulle righe storte dell'uomo.



 



Massimo Scorticati



 




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