domenica 7 luglio 2019
Storia
Un cattivo maestro
Voltaire

Se c'è un'eminenza grigia che, sia pure a quasi tre secoli di distanza, continua a guidare tanti maître à penser dei giorni nostri, questi e Jean Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire.



Romanziere, storico e brillante polemista fu uno dei capifila di quella corrente filosofica chiamata illuminismo che ha ispirato la Rivoluzione francese: l’evento che ancora oggi il mainstram ufficiale considera la luce che finalmente ha rischiarato le sorti dell'umanità dopo i tenebrosi secoli del medioevo cattolico.



La sua penna non risparmiò re, papi, aristocratici e accademici. Una specie di furia distruttrice che curiosamente diventava ancor più devastante quando a finire sotto accusa era lui stesso. In quel caso Voltaire scatenava il finimondo e attraverso i suoi agganci politici reclamava perfino la galera per i suoi detrattori. A dire il vero non sempre riuscì ad avere soddisfazione nonostante i favori di cui sempre godette dai potenti d'Europa. Anzi, le sue intemperanze verbali e la sua affezione per la polemica “sopra le righe” sconfinarono più di una volta nella diffamazione costandogli già da giovane un soggiorno nelle segrete della Bastiglia, la celeberrima prigione di Parigi. In quel caso non riuscì a fermare il suo impeto apostrofando la figlia del reggente Filippo d'Orleans con il poco lusinghiero epiteto di “Messalina”.



Alla faccia di tutti coloro che hanno presentato l'esistenza di Voltaire come un manifesto della tolleranza, a partire dal famoso adagio, a lui erroneamente attribuito ma ancora oggi citato come un mantra dai fans del politicamente corretto: “Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”. A costo di deludere i tanti epigoni del filosofo francese va detto che alla reputazione di araldo della tolleranza corrisponde viceversa una vita condotta all'insegna di un odio feroce, quasi a dimostrare che questa presunta accondiscendenza aveva un vizio ideologico di fondo.



Proprio sulla tolleranza Voltaire ha scritto addirittura un trattato e non certamente con l'obiettivo di produrre un manuale di buoni sentimenti. La tolleranza per Voltaire non valeva per chi non la pensava come lui. Prima di tutto non poteva valere per la Chiesa, l'<infame> che doveva essere schiacciata. Ecrasez l'infame era l'inconfondibile motto con cui vergava le missive ai suoi amici.



La tolleranza perciò non corrispondeva al doveroso rispetto verso il nostro prossimo ma piuttosto in una forma di irenismo in cui tutte le fedi e tutte le idee si equivalgono. Alla verità oggettiva egli sostituì l'opinione che arrivò a considerare “la regina del mondo”. E quanto sia ancora in voga questo modo di pensare ai giorni nostri non abbisogna di particolari spiegazioni e sia sotto gli occhi di tutti.



Non dimentichiamo poi che fu lui a introdurre il concetto zootecnico di razza da cui derivarono delle posizioni inequivocabilmente razziste. Del tutto coerente con le sue idee Voltaire investì parte del suo lauto patrimonio nelle azioni di una compagnia di navigazione che effettuava il commercio di schiavi verso le Americhe. Per lui la professione del negriero doveva risultare perfettamente normale se nel “Saggio sui costumi” arrivò a scrivere che “i negri sono per loro natura gli schiavi degli altri uomini. Essi vengono acquistati come bestie sulle coste dell'Africa”. Tra i “complimenti” che egli riservò agli uomini di colore si annovera quella di “animali” e “specie mostruosa nata da abominevoli amori tra donne e scimmie”.



E le sue invettive non si fermarono ai neri tout court. Anche i brasiliani erano animali non pienamente sviluppati mentre perfino i lapponi furono relegati al rango di esseri primordiali nella sua personale scala evolutiva.



Un altro bersaglio di Monsieur Arouet furono gli ebrei e curiosamente anche in questo caso all'origine del suo antisemitismo pare vi fosse una sua vicenda privata, ovvero un affare a dir poco losco risalente al suo soggiorno a Berlino alla corte di Federico di Prussia. In quel frangente, Voltaire, insieme ad un ebreo, organizzò una frode di titoli pubblici ai danni dello Stato. Ma disgraziatamente per lui tutto finì male: scoperto e truffato a sua volta dal socio, finì sotto processo.



Iniziò così il suo odio implacabile verso gli ebrei invariabilmente apostrofati con gli appellativi di “ladri”, “incolti” e “rozzi”.



Gli epigoni di Voltaire hanno cercato di giustificare queste espressioni poco eleganti sostenendo che dietro la sua giudeofobia vi fosse la critica alle posizioni della Chiesa che aveva accolto gli scritti dell'Antico Testamento e avallato l'esistenza di un popolo eletto a scapito degli altri. Argomentazioni piuttosto sballate se fu lo stesso filosofo a fare una classifica tra i popoli sostenendo per esempio che i bramini indiani furono più ingegnosi e precoci degli ebrei in quanto crearono loro il primo uomo chiamandolo Adimo.



Al di là delle complicate dispute teologiche è noto che Voltaire, alla stregua di tutti gli illuministi, fosse un deista convinto. Per i filosofi “illuminati” come lui, Dio era un'entità astratta e irraggiungibile alla quale si poteva riconoscere al massimo il titolo di Essere Supremo o Grande Orologiaio. Posizioni perfettamente omogenee alla Massoneria, organizzazione che lo vide convinto membro e con cui condivise in particolare l'avversione verso la religione cattolica.



Nella sua lotta senza quartiere contro il cattolicesimo non si fece scrupolo di usare mezzi scorretti o immorali. A dimostrarlo sono non soltanto i suoi scritti ma anche per esempio la lunga polemica su due casi giudiziari che fecero molto discutere la Francia di quel tempo.



Il primo riguardò Jean Calas, un commerciante ugonotto condannato per l'omicidio del figlio che, si diceva, in procinto di convertirsi al cattolicesimo. Il secondo caso riguardò invece un giovane di 19 anni di un paesino dell'Alta Francia, il cavaliere La Barre, decapitato per diverse sue manifestazioni blasfeme e per aver sfigurato uno dei simboli sacri più popolari di quel luogo. Nel primo caso la condanna fu del tutto legittima mentre nel secondo, per quanto si trattasse di una pena durissima, non ne ebbe alcuna responsabilità la Chiesa che al contrario si spese affinché il Re commutasse il supplizio.



Questi fatti - di cui si è occupata in modo dettagliato la storica Marion Sigaut – sono stati manipolati ad arte da Voltaire attraverso la costruzione di un castello di bugie in cui qui e là compare qualche verità giusto per gettare un po' di fumo negli occhi dei suoi contemporanei e dare forza argomentativa al suo obiettivo principale: presentare la causa di due “innocenti” sacrificati alla causa del fanatismo cattolico contro cui l'unico rimedio sarebbe la laicité dell'illuminismo.



Non pensiamo che Voltaire si prenda a cuore il destino pietoso di due condannati: il suo stile e la sua condotta da cortigiano consumato hanno sempre un secondo fine e nascondono una spocchiosa diffidenza verso il popolo che ricorda tanto quella dei suoi odierni seguaci “radical-chic”.



Come si vede non sono poche le zone d'ombra nella vita e nelle opere di questo personaggio. Alla smania di protagonismo si dovrebbe aggiungere la sua spiccata misoginia e una passione smisurata per il gioco d'azzardo e il denaro. A rimpinguare il suo ingente capitale non contribuì soltanto il commercio degli schiavi ma anche il prestito di denaro a tassi così elevati da configurare un'attività di vero e proprio strozzinaggio.



Un quadro desolante per un uomo che fu annoverato tra gli “immortali” dell'Accademia Francese e i cui resti, non a caso, sono conservati nel tempio laico per eccellenza del Pantheon. In definitiva un cattivo maestro al pari di tanti suoi nipoti e nipotastri, paladini del “libero pensiero” ai giorni nostri.



 



Massimo Scorticati




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