sabato 2 giugno 2018
Cultura e società
Hikikomori
Un problema che potrebbe riguardare anche l'Italia

Hikikomori come facilmente intuibile è un termine giapponese, può essere tradotto più o meno con stare in disparte, autoisolarsi.

Dai primi anni 2000 è apparso in Giappone un comportamento sociale, infatti non è considerato una patologia, che coinvolge, si dice, un milione di adolescenti e giovani del Sol Levante in genere fino a circa 25 anni di età. In sostanza il giovane si preclude volontariamente ogni e qualsiasi contatto con il mondo esterno per un periodo di tempo indefinito ma comunque duraturo e In ogni caso superiore ai sei mesi. Sei mesi di isolamento completo sono infatti il termine minimo secondo i parametri del governo giapponese per definire un ragazzo hikikomori. L’isolamento comprende ovviamente il rifiuto di qualsiasi forma di studio o di lavoro ma non solo, per essere definito hikikomori è necessario aver troncato anche tutte le altre relazioni sociali quali amicizie, conoscenze, eventuali rapporti di coppia e tutto il resto. L’unico contatto, se così si può definire, è la presenza su alcuni social o su giochi on line rigorosamente in forma anonima tramite dei nickname o dei profili fake. In pratica la persona a livello anagrafico di nome e cognome sparisce completamente dalla società e dalla vita distratta dei suoi simili. Da quanto ci è dato sapere la società giapponese è caratterizzata da un’altissima competitività fino dai primi anni della scuola e che continua poi inasprendosi con gli studi superiori e nel mondo del lavoro. Questa competitività estremizzata e disumanizzante, già di per sé deleteria, determina come conseguenza secondaria (ma non per importanza), la perdita pressoché totale del dialogo familiare, i padri sono completamente assenti dalla vita dei figli, quasi degli sconosciuti, per motivi lavorativi rientrano devastati a orari improponibili quando non sono costretti a dormire sul lavoro. Sulle madri, peraltro anch'esse lavoratrici, ricadono tutte le responsabilità domiciliari e educative. Da qui la possibilità dei ragazzi di rinchiudersi nelle proprie camere vivendo il giorno come la notte, limitando le necessità fisiche allo strettissimo necessario e trascinando una non vita attraverso il display dei loro computer. Sembra si siano registrati casi estremi di ragazzi che si sono reclusi per due anni prima che i genitori si accorgessero che avevano smesso di andare a scuola, altri talmente debilitati fisicamente da mettere in crisi la deambulazione peraltro limitata al tragitto camera bagno e ritorno. Il computer è l’unica via di fuga e per conto parte integrante della prigione e non c’è prigione più sicura di quella dalla quale ci si rifiuta di uscire. Praticamente una finestra che si apre sull'universo parallelo del web senza fatica e consente di vivere una vita virtuale senza costrizioni, senza doversi mettere in gioco, senza doversi confrontare in ogni momento con i più bravi per qualsiasi cosa. La società italiana non può certo essere paragonata a quella giapponese per milioni di evidenti ragioni ma in questi ultimi anni l’inasprimento delle condizioni di vita, il dimezzamento degli stipendi, lo schiavismo dilagante nel mondo del lavoro, possono portare lo stesso tipo di problemi e anche la scuola, pur ben diversa dagli standard giapponesi può innescare magari per le ragioni opposte, comportamenti di suicidio sociale in un soggetto fragile per esempio sottoposto a ripetuti episodi di bullismo che gli insegnanti, spesso impreparati o intimiditi, non riescono a contenere. Anche da noi quindi si possono verificare nelle dovute proporzioni le condizioni scatenanti di un comportamento sociale hikikomori, per esempio il calo delle nascite fa sì che i pochi figli unici rimasti siano sottoposti a pressioni maggiori di quanto sarebbero in una famiglia numerosa. La diffusione capillare dei social network e dei giochi on line non aiuta certo a contenere questo tipo di comportamenti. Il mondo del lavoro, come già detto, anche da noi non aiuta certo, un ventenne in cerca di una prima occupazione non ha molte scelte davanti, mentre continua a studiare nella speranza di guadagnare un posto decente nella graduatoria di qualche concorso non gli resta che rivolgersi a qualche agenzia interinale di buon cuore che gli trovi un impiego a chiamata da 600 € Al mese. A tutti questi simpatici ingredienti aggiungiamo pure, perché c’è, l’innata pigrizia e inerzia insita nell’animo umano e abbiamo ottenuto un bel cocktail che si potrebbe chiamare: “Ma chi me lo fa fare a me?”.



Esiste uno studio dell’università Cattolica risalente a una decina di anni fa secondo il quale in Italia Sarebbero circa due milioni i ragazzi senza lavoro e che hanno smesso di studiare, ovviamente non tutti sono hikikomori, sicuramente alcuni di loro trovano comoda la situazione di aver terminato gli studi e non essere ancora riusciti ad entrare nel mondo del lavoro, in ogni caso non è facile stabilire un reale confine tra la pigrizia e il vero disagio psicologico e non è nemmeno facile conoscere il numero dei reali disagiati e questo per la natura stessa del disagio che porta in sostanza il soggetto a nascondersi e le famiglie spesso per varie ragioni a sottovalutare la portata del problema. Il ragionamento che tutto sommato che il figlio stia in camera a giocare col computer è sempre meglio piuttosto che si ubriachi e vada in giro a sfasciare macchine è una tentazione per ogni genitore. Un’ultima riflessione sul futuro del nostro paese si impone alla luce di quanto sopra. Un confronto tra i nostri figli e quelli degli immigrati islamici sia come numero che come tipologia di educazione è presto fatto. Le conseguenze sono evidenti.

Fabio Dalla Vedova




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